“Fuoco nel mare”: La lotta dei popoli sradicati nel Mediterraneo

“Fuocoammare” è una canzone sul mare in pericolo a causa delle condizioni meteorologiche che impediscono ai pescatori di lavorare. Lo sentiamo alla radio nel documentario”Fuocoammare (Fuoco nel mare)» (2016) da Gianfranco Rosadove apprendiamo anche l’immagine dietro la frase “fuoco in mare”, durante la seconda guerra mondiale, le navi militari lanciavano razzi in aria per creare l’immagine che ci fosse fuoco in mare.

Un’immagine suggestiva di pericolo, come altre volte, una nave che rischiava di affondare lanciava un razzo come richiesta di aiuto per un’emergenza.

Ripercorriamo la realizzazione di un documentario italo-americano in occasione del naufragio di migranti, avvenuto domenica vicino alle coste del sud Italia. Pensando che loro – come altre persone immigrate sfollate – non abbiano alcun meccanismo per chiedere aiuto.

Mare – in questo caso il Mediterraneo – rappresentano un pericolo per coloro che cercano di scapparesoprattutto quando sono “aiutati” dai mercanti, che ammucchiano anime umane in barchette, trattando ogni testa come un ulteriore vantaggio per loro.

La narrazione di “Fuocoammare” si svolge su un’isola italiana Lampedusa, tra la Sicilia e la costa tunisina, il primo sbarco affrontato da profughi e migranti dal Nord Africa. Verso la fine del documentario, il regista si è avvicinato ai marinai per fornire la propria testimonianza. “Questa è la mia testimonianza. Non possiamo più vivere in Nigeria. Molti stavano morendo, la maggior parte furono bombardati […]» disse uno di loro senza nemmeno guardare la telecamera.

Il desiderio di sicurezza e di una vita migliore è una forma di motivazione per chi lotta contro le onde – disidratazione, sofferenza, caduta – per sopravvivere ancora un po’ per raggiungere la terraferma e lì iniziare una nuova vita.

Questo è uno dei due mondi catturati nel documentario, che include anche una scena in cui la Guardia Costiera riceve una richiesta di aiuto. La seconda è la vita quotidiana degli isolani che cucinano e ascoltano canzoni alla radio. Tra loro e Samuele ha 12 anni chi preferisce lanciare con una fionda mentre un occhio è debole.

La scena in cui il medico locale diagnostica il dodicenne è un punto chiave, insiste il regista. “Questo può essere simbolicamente interpretato come gli occhi di tutta Europa sono miopi quando vedono ciò che si sta svolgendo davanti ai loro occhi”, sono state le parole del regista, come abbiamo notato in una conferenza stampa che ha tenuto nell’aprile 2016, presso l’edificio della Fondazione Onassis, il occasione la prima del suo documentario, poi, in Grecia.

Il documentario racconta la verità. Lui stesso una volta ha sottolineato che poiché l’arte non può cambiare il mondo, i suoi film possono almeno commuovere e “attivare la coscienza del pubblico”. Occhi in crescita di chi sa poco o niente e sa, abbiamo finito.

Poi, nel 2016, attraverso i documentari, si è cercato di sensibilizzare il pubblico, sottolineando la natura di alcuni generi cinematografici come registro della realtà senza intervento. Oggi, sette anni dopo, e nel frattempo, è un’altra foto e un’altra opera d’arte. Le foto catturano momenti, i documentari raccontano storie.

I tweet di Ursula von der Leyen che invocano “tragedie” per accelerare gli sforzi del Patto di migrazione e asilo e del Piano d’azione per il Mediterraneo centrale ricordano gli altri commenti di Rosie. Ha caratterizzato la politica dell’Europa nei confronti dell’afflusso di immigrati e rifugiati come una “politica della sconfitta”.

Sette anni dopo, la crisi dei rifugiati esiste ancora. Gli umani hanno chiesto di vivere i percorsi più percorribili della vita, alla fine perdendo la vita a bordo di una nave senza albero perché qualcuno ha espresso loro un desiderio.

I documentari, le fotografie, la realtà per queste persone (inclusi immigrati e rifugiati), ci mostrano che la loro vita quotidiana è in uno stato di emergenza.

*Il documentario “Fuocoammare” (“Fuoco nel mare”, 2016) di Gianfranco Rosi ha vinto l’Orso d’Oro, l’Universal Commission Award e l’Amnesty International Award al 66° Festival Internazionale del Cinema di Berlino.

Alberta Trevisan

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